Nata settant’anni fa come «Comunità europea del carbone e dell’acciaio», l’Unione europea volta le spalle ai combustibili fossili e ai loro effetti sul riscaldamento del pianeta. Dal 2050 l’Ue dovrà essere climaticamente neutrale, cioè non produrre nemmeno un grammo in più di gas a effetto serra rispetto a quelli assorbiti. È l’obiettivo vincolante della Legge sul Clima europea, approvata definitivamente dal Parlamento europeo con 442 sì, 203 no e 51 astensioni. Oltre al target finale, il testo ne stabilisce uno intermedio: -55% di emissioni entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. Ci saranno anche revisioni periodiche (ogni cinque anni) e un Comitato scientifico europeo sul cambiamento climatico, che monitorerà costantemente i progressi fatti.
A breve è attesa la ratifica anche da parte del Consiglio, poi dalle parole si passerà ai fatti: la legge entrerà in vigore 20 giorni dopo la sua pubblicazione e la Commissione europea presenterà una cascata di regolamenti per rendere ogni settore dell’economia europea adatto agli obiettivi fissati.
«La scienza è ora al centro delle politiche dell’UE» ha detto la relatrice della Legge sul Clima al Parlamento, la socialista svedese Jytte Guteland, visibilmente soddisfatta per il risultato raggiunto. Ma non tutti sono d’accordo con lei. «Questo sarà anche un passo nella giusta direzione, ma è un passo troppo piccolo e inadeguato», ha attaccato il suo connazionale Pär Holmgren, dei Verdi.
Il gruppo dei Verdi/Alleanza Libera per l’Europa ha infatti votato in blocco contro la legge, così come hanno fatto la Sinistra europea e il gruppo Identità e Democrazia, mentre i Conservatori e riformisti europei si sono divisi fra astensioni e voti negativi. La norma è passata comunque a larga maggioranza, perché sostenuta dai tre gruppi più numerosi dell’emiciclo: Partito Popolare europeo, Socialisti & Democratici e Renew Europe.
L’opposizione parlamentare prende le mosse da istanze diverse. Per i gruppi della destra radicale, la Legge sul Clima è espressione di un «inquinamento ideologico», come lo ha definito l’eurodeputato di Fratelli d’Italia Nicola Procaccini: le conseguenze concrete saranno la perdita di competitività delle imprese europee, costrette a rivedere i propri processi industriali per adeguarsi, e la sottomissione economica alla Cina.
Dai banchi dei Verdi/Ale, l’accusa è invece inversa: non fare abbastanza per contenere il riscaldamento globale. «Siamo ancora lontani da una legge all’altezza delle sfide ambientali che ci aspettano», spiega a Linkiesta l’eurodeputata Eleonora Evi. I punti critici fondamentali sono due, strettamente connessi fra loro: il target di riduzione delle emissioni e il cosiddetto carbon budget, ovvero la quantità di emissioni di gas a effetto serra (tra cui soprattutto l’anidride carbonica) che il nostro pianeta si può permettere, prima che il riscaldamento globale diventi irreversibile.
«La comunità scientifica ha più volte ribadito che una riduzione al 55% non è sufficiente a contenere l’aumento delle temperature», afferma Evi. Nella sua posizione iniziale, in effetti, il Parlamento europeo aveva votato per tagliare le emissioni del 60% rispetto al 1990. La soglia è stata poi abbassata nei negoziati con il Consiglio dell’Ue, vista l’indisponibilità degli Stati membri a un compromesso su questo aspetto.
Secondo l’eurodeputata e molte associazioni ambientaliste europee, la soglia concordata non è abbastanza. Servirebbe ben altro per restare in linea con gli accordi di Parigi sul clima, che prescrivono di mantenere l’aumento della temperatura entro gli 1,5 gradi centigradi, o comunque ben al di sotto dei due gradi, rispetto ai livelli pre-industriali. «Ciò avrebbe richiesto una quota di riduzione di almeno il 65%», aveva spiegato a Linkiesta prima del voto Michael Bloss, eurodeputato dei Verdi tedeschi che ha seguito da vicino tutto l’iter della Legge sul Clima.
L’europarlamentare cita le ultime proiezioni del Climate Action Tracker, un’analisi scientifica indipendente che analizza le politiche messe in atto dai governi mondiali per limitare il surriscaldamento del pianeta. Per avere il 66% di possibilità di restare entro gli 1,5 gradi, servirebbe eliminare il 67% di emissioni a livello globale, mentre eliminandone il 54% si hanno due possibilità su tre di mantenersi al di sotto degli 1,8 gradi. Numeri molto lontani da quelli della Legge sul Clima, soprattutto considerando che l’Ue si è auto-investita della leadership mondiale nella lotta al riscaldamento globale e che dovrebbe quindi tenere l’asticella molto alta per incrementare le ambizioni degli altri Paesi del mondo.
Questione controversa riguarda anche le emissioni “nette”, che sono i gas a effetto serra prodotti, meno quelli assorbiti dagli ecosistemi naturali o da eventuali tecnologie apposite. A tal proposito, la Commissione europea ha promesso di rivedere il Regolamento sull’uso del suolo e la silvicoltura, che al momento prevede di compensare ogni nuova emissione legata allo sfruttamento del terreno con un assorbimento equivalente di anidride carbonica dall’atmosfera nel periodo 2021-2030. Rivedendo al rialzo questa norma, si può portare l’assorbimento oltre i 300 milioni di tonnellate di C02 entro il 2030 afferma la Commissione: così facendo il tasso di riduzione delle emissioni sarebbe di fatto aumentato al 57%.
Bloss tuttavia definisce «trucchi di calcolo» quelli che fissano gli obiettivi netti di riduzione. Se il target definito è al 55%, le emissioni reali calerebbero soltanto del 52,5%, con il resto dei gas immagazzinati magari in grandi foreste, pronti a essere liberati nell’atmosfera al primo incendio. Eleonora Evi concorda: «Va benissimo aumentare le superfici che assorbono C02. Ma parallelamente bisogna diminuire significativamente i gas emessi».
La protesta degli attivisti
Oltre che dal Parlamento europeo, le voci critiche si levano pure dagli attivisti per il clima. In protesta contro una legislazione definita non all’altezza e una retorica green non confermata dai fatti, sono apparsi subito nei pressi delle istituzioni europee diversi manifesti di protesta, firmati Fridays For Future ed Extinction Rebellion: ribattezzano «fake deal» il piano verde della Commissione europea e mostrano un uomo intento ad accendersi un sigaro con una Terra in fiamme.
Secondo Giovanni Mori, portavoce di Fridays For Future Italia, la legge è debole perché l’obiettivo di riduzioni che fissa riguarda l’intera Ue e non vincola ogni singolo Stato. «Non si è stabilito chi deve fare cosa per tagliare le emissioni. Questo porterà a un confronto tra i governi nei prossimi anni, in cui i Paesi più forti si imporranno sugli altri».
Il problema principale, per Mori è però rappresentato dal carbon budget. All’inizio del 2018 un rapporto speciale dell’Ipcc, il comitato di esperti dell’Onu sul cambiamento climatico, stabiliva una soglia massimo di 420 gigatonnellate di emissioni di gas a effetto serra per avere buone probabilità (66%) di restare entro il limite degli 1,5 gradi. Nel 2019 ne sono state emesse 52,4 secondo l’Emissions Gap Report, sempre delle Nazioni Unite. «Sono calcoli che tengono in considerazione moltissime variabili e per questo non possono indicare numeri precisi. In linea di massima, però, ci restano circa otto anni. Poi le emissioni totali del mondo dovranno essere zero».
Il carbon budget è anche uno strumento per verificare in modo concreto se le politiche di riduzione delle emissioni stanno funzionando o meno. Per questo motivo, Fridays For Future contesta la mancata definizione di una quota massima di emissioni a livello europeo entro il 2030. La Legge sul Clima prevede che nel 2023 venga decisa quella valida fino al 2040, ma il prossimo decennio potrebbe essere già troppo tardi. «Gli scienziati forniscono i dati, poi tocca ai governi mondiali agire. L’Europa nella storia ha emesso il 28% dei gas serra del mondo e dovrebbe darsi subito un limite, che assicuri sia un buon esempio, sia un’equa distribuzione dello sforzo».
Rimandando la definizione di questa soglia massima, le istituzioni comunitarie tramandano il problema alle legislature successive. E possono, per il momento, mettere in atto quelle politiche più controverse per il loro impatto ambientale, come la Pac (Politica Agricola Comunitaria), oggetto di critiche per le sue conseguenze su clima e biodiversità, sostiene Giovanni Mori. «Se non ti dai un budget, non puoi nemmeno sforarlo».